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Siate creativi, siate colti: intervista a Marie-Aude Murail

Siate creativi, siate colti: intervista a Marie-Aude Murail

SARAH: Buongiorno, quella che vedete all’opera è la redazione del blog qualcunoconcuicorrere.org., formata da 20 ragazzi. Oggi siamo una decina e ci alterneremo sul palco.Veniamo da Firenze e ringraziamo moltissimo lo staff di Mare di Libri per averci dato l’opportunità, della quale siamo molto orgogliosi, di presentare a tutti voi Marie-Aude Murail.

Non mi dilungo eccessivamente nella presentazione dell’autrice, perché si tratta di uno dei nomi più conosciuti della letteratura per ragazzi. Da “Oh, boy” a “3000 modi per dire ti amo” la casa editrice Giunti ha presentato ai lettori italiani alcuni dei numerosissimi titoli che la sua bibliografia comprende.

MARIE-AUDE MURAIL: Una cosa che amo dire è che i giovani italiani sono a proprio agio con la lingua orale a dispetto dei francesi, più concisi.

EMMA: Cercheremo, nella chiacchierata di stamani, di passare da un romanzo all’altro attraverso temi e riferimenti della sua narrativa, ma per scaldarci inizierei con una domandina facile facile: Perché scrivere? E perché scrivere per ragazzi?

MARIE-AUDE MURAIL: Hai tutta la giornata a disposizione? Scrivo per essere letta; e preferisco essere letta dai ragazzi. Quando scrivo ho bisogno di pensare a qualcuno e mi aiuta molto pensare a un ragazzo o a un adolescente. Ho come l’impressione di scrivere meglio,  più efficacemente e con il cuore.

CHIARA: L’ultimo suo romanzo pubblicato in Italia è “3000 modi per dire ti amo”, la vicenda di tre adolescenti, molto diversi tra loro, che grazie al teatro trovano il loro posto nel mondo. Il teatro è il quarto grande protagonista del romanzo, con tutte le sue componenti, parole e gesti, coinvolgimento intellettuale e dimensione corporea.

GIULIA: Può presentare brevemente questo romanzo ai lettori italiani che ancora non l’avessero letto, tracciando un breve ritratto dei tre protagonisti e del professor Jeanson?

MARIE-AUDE MURAIL: Mi piace molto raccontare storie di vocazione. In Nodi al pettine è la vocazione di parrucchiere, in Cécile- Il futuro è per tutti è la vocazione di diventare maestra, in 3000 modi di dire ti amo è la vocazione dell’attore.

La voglia di scrivere questo libro mi è venuta incontrando un giovane attore che ha interpretato la serie  tratta da “Mio fratello Simple“: mi ha detto che quando era a scuola non capiva chi avrebbe voluto diventare. Si annoiava. Poi un giorno un giorno il professore di letteratura francese li ha portati a vedere uno spettacolo alla Comédie Française. Così ha scoperto che sarebbe divenuto un attore.
E questo è anche l’inizio della mia storia.

Si tratta di tre giovani che non si assomigliano per niente: Chloè che ha dei genitori molto borghesi che la tengono chiusa nel suo guscio, un’ po’ secchiona, che ha sempre paura di tutto; Bastien, i cui genitori hanno un negozio e non si sono mai occupati di lui tanto che è soprannominato “il figlio della drogheria”. Poiché ha visto i genitori ammazzarsi per il lavoro si è fatto una promessa: di non lavorare mai. Infine, c’è Neville, che si chiama così perché sua mamma che fa la donna delle pulizie, ha visto una soap opera inglese in cui il protagonista si chiamava Neville e ha deciso di chiamare in questo modo il figlio (che si sarebbe potuto anche chiamare Kevin o Steve, tutto sommato è stato fortunato!); è un ragazzo che si fa le canne e ha una vita dissoluta.

E poi un giorno il professore porta i ragazzi a vedere Il “Don Giovanni” di Molière e in quella bellissima sala di teatro con tutti gli addobbi dorati e i tendoni di velluto rosso, il sipario si alza.
C’è da dire che durante la rappresentazione i tre ragazzi si sono anche un po’ annoiati.
Solo l’indomani iniziano a sognare il teatro: Chloè vorrebbe essere in scena, subire una metamorfosi e far piangere i suoi genitori; Bastien vorrebbe invece far ridere il pubblico come Sganarello e Neville sogna di essere Don Giovanni. È l’inizio di una triplice vocazione.
Sono ragazzi che non avrebbero più dovuto incontrarsi e invece si ritrovano nello stesso conservatorio per preparare lo stesso concorso per diventare attori. Il signor Jeanson farà interpretare loro solo scene d’amore: tremila scene d’amore. Finiranno con il dirsi ti amo?
Non vi dirò alla fine chi amerà chi.

CARLOTTA BALDI PAPINI: I grandi classici del teatro, come dicevamo, sono riferimenti onnipresenti nel romanzo, tanto che ogni capitolo ha come titolo una citazione da una pièce. Un altro suo romanzo che guarda esplicitamente ai classici della letteratura è Miss Charity, dichiarato omaggio ai capolavori della letteratura anglosassone. Desiderava, con questo romanzo, avvicinare i giovani lettori ai classici? Può la letteratura per adolescenti porsi questo obiettivo, o magari deve, secondo lei?

MARIE-AUDE MURAIL: Non è solo la letteratura per adolescenti che si deve porre questo obiettivo ma anche tutti gli adulti che amano gli adolescenti, che hanno voglia di trasmetter loro qualcosa. Ma questo è possibile solo se: vi conoscono, vi apprezzano, vi amano, se si interessano alla vostra cultura. È uno scambio: 50/50. Penso che sia un mio ruolo/compito non solo mio di scrittrice, ma anche di ogni adulto.

Se non fossi stata scrittrice sarei diventata maestra. Ma bisogna essere consapevoli che la cultura è qualcosa che viene proposta in maniera sbagliata, come se fosse un cimitero di autori morti. Ma è invece il nutrimento di persone vive. Se volete essere una generazione creativa dovete essere una generazione colta.

CARLOTTA BOGGI: Un grande scrittore italiano, Italo Calvino, ha scritto: “Un classico, è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”. Pensa che questa definizione possa adattarsi in futuro ai suoi romanzi?

MARIE-AUDE MURAIL: Quando ero piccola e facevo catechismo mi avevano insegnato un “trucco”: l’eternità. Non ci credo. Ma vorrei lasciare una piccola traccia. Come le stelle cadenti, che lasciano la scia prima di morire. Sarebbe sufficiente.

FEDERICA: Vorrei ora unire, in una panoramica sintetica, tre dei suoi romanzi più celebri: Oh, boy, Mio fratello Simple e Nodi al pettine. Al di là del fatto che, ovviamente, ognuno dei tre romanzi ha la propria specificità, ci pare che abbiano un dato in comune: in tutti e tre i protagonisti trovano accoglienza, condivisione, affinità in un ambiente diverso dalla famiglia. A loro modo, sono tre romanzi sul concetto di “famiglia”. Qual è per lei il valore della famiglia e quali sono i suoi confini?

MARIE-AUDE MURAIL: In famiglia si gioca tutta la partita: le cose più importanti che impari, i sentimenti…  La famiglia deve essere ambivalente: ami tuo fratello ma ne sei geloso; moriresti per tua madre, ma quanto può essere “pallosa” ogni tanto. Se non impari questo in famiglia e non impari ad accettarlo, avrai difficoltà nel trovare il tuo posto in società. Proprio nella famiglia impari a esplorare tutta la gamma e la complessità di sentimenti ed è un lavoro lungo.
Quando si è piccoli il papà e la mamma sono come delle divinità. Quando si diventa adolescenti sono gentili e cattivi, come se il mondo fosse diviso in due, ma sei tu quello spezzato a metà. Questo lo impari pian piano, prima in famiglia, poi con gli amici. Una delle cose che si imparano attraverso l’amicizia è il tradimento. Ci sono sempre due facce della medaglia. E se non vuoi essere un disadattato, un violento, teorico, devi accettarlo. E’ un lavoro che imparerai a fare in famiglia.

FRANCESCO: Parliamo ora di un altro suo romanzo, Cécile (“Vive la république” in originale), uno dei suoi libri più impegnati, in cui la protagonista è una maestra al suo primo incarico. I temi del romanzo sembrano essere gli squilibri della globalizzazione (la speculazione, l’assistenza ai rifugiati, il razzismo strisciante verso gli immigrati…) Da quale spunto particolare è nato questo romanzo?  Di quante Cécile avrebbero bisogno, nel 2016, le scuole di tutta Europa, oggi che l’integrazione è un tema drammaticamente urgente?

MARIE-AUDE MURAIL: penso che tutti conoscano la storia del Colibrì. Un grande incendio si è sviluppato nella foresta tropicale e il colibrì che è un uccello piccolissimo prende delle gocce d’acqua da un fiore e le getta sul fuoco. Tutti gli altri animali della foresta gli dicono che non servirà a niente il suo gesto.
E con voce diversa (da attrice) aggiunge: Sì, ma almeno io sto facendo la mia parte.

FLAMINIA: Come abbiamo già ricordato più volte, i temi dei suoi romanzi sono spesso “forti”: la malattia, l’handicap, la violenza familiare, gli stereotipi di genere, l’omosessualità. Nella sua scrittura, però, è sempre presente il filtro dell’ironia a mettere distanza tra le vicende drammatiche e il lettore. Quanto è importante, per lei, che il lettore sorrida leggendo i suoi libri?

MARIE-AUDE MURAIL: è una protezione, ma è anche qualcosa che si impara. In un primo tempo avverto delle sensazioni che mi fanno soffrire. Ho dovuto sempre lavorare su me stessa per capire in quello che mi capitava quel che c’era di divertente, trovare un lato positivo della faccenda.

Penso che sia stata mia madre a farmi questo regalo. Mi diceva sempre che le due parole più importanti della lingua francese sono “amour” e “humour”: l’amore e l’umorismo. L’amore può essere qualcosa di insopportabile, l’umorismo è la chiave per sopportarlo.

ELEONORA: Vorremmo parlare, adesso, delle scelte degli scrittori in merito alla conclusione dei romanzi per ragazzi. Molti adulti pensano che i libri per ragazzi debbano necessariamente trasmettere messaggi positivi. Molti giovani lettori, al contrario, considerano il lieto fine ad ogni costo una forma di protezione non richiesta da parte degli adulti. Ci pare che nei suoi libri ci sia un equilibrio molto bilanciato tra l’onestà intellettuale di non nascondere le amarezze dell’esistenza e la volontà di dare comunque un po’ di speranza. Che pensa a questo proposito?

MARIE-AUDE MURAIL: C’è un concetto psicologico molto forte in cui io credo fortemente: la resilienza. Ci sono persone che durante l’infanzia o l’adolescenza hanno vissuto dei traumi ma nonostante questo, grazie forse a un incontro fortunato o a una persona che li ha ascoltati sono riusciti a resuscitare. Si potrebbe chiamare “un meraviglioso malore”. Ogni tanto dico alle persone che incontro che bisogna saper fare dell’infelicità la propria felicità.Prima di venire da voi ho letto un’intervista di un attore che si chiama François Cluzet che ha recitato nel film “Quasi amici“. Nel film recita la parte del miliardario tetraplegico. In questa intervista parla della sua infanzia: la madre lo ha abbandonato a 8 anni, l’ha lasciato con il babbo che aveva altri tre figli ed era commerciante. Ha vissuto un’infanzia che fa pensare a Dickens e suo padre diceva che non aveva il diritto di piangere. E un giorno è andato a teatro e ha visto persone che piangevano e che facevano piangere il pubblico che li applaudiva. Da quel momento si è detto: diventerò attore. È stata la sua resurrezione: è diventato attore.
Però anche se uno è resiliente quando uno ha subito tante angherie durante l’infanzia riporta delle cicatrici.
In età adulta si è messo a bere. Quasi amici è stato quasi come una seconda resurrezione. Si è reso conto che le persone potevano amarlo. Ha dato loro qualcosa che li rendeva felici.
Penso che ci siano più chances di essere resilienti e di “rinascita” nel corso della nostra vita. 
Ho la speranza molto forte in me, non sono ottimista: sono “volontaria”.

SARAH:  Vorremmo entrare per un attimo nell’officina di Marie-Aude Murail. Come nasce un suo romanzo? Da dove arriva normalmente l’ispirazione? Quanto dura la fase di scrittura? Ha dei luoghi consacrati allo scrivere?

MARIE-AUDE MURAIL:  per cominciare la penna e il bloc-notes. Questo l’ho scritto in albergo stamattina, quest’altro (fa vedere i fogli) in aereo. Non c’è un posto prediletto, scrivo ovunque. Non ci sono momenti particolari, bastano una penna e un foglio. Ma soprattutto, quando inizio a vivere con i miei personaggi, ci vivo di giorno e di notte: mio marito ci è abituato!

EMMA: Ci può anticipare qualcosa sul prossimo romanzo che leggeremo in italiano?

MARIE-AUDE MURAIL: bisogna chiedere a Giunti! L’ultimo che è uscito in Francia si chiama “Sauveur & fils” sarà difficile da tradurre. Si tratta di uno psicologo che viene dalle Antille francesi, grosso un metro e novanta, ha un bambino di 8 anni Lazzaro (come quello della Resurrezione). La mamma è morta. Abitano nella mia via a Orleans, in una casa divisa in due: da una parte c’è la vita della famiglia, dall’altra la stanza dello psicologo. Quando il bambino torna a casa da scuola, tutto solo, una sera, si annoia e vuole essere vicino al papà. Sa di non avere il diritto di varcare quella soglia che fa da confine tra un mondo e l’altro. In punta di piedi si avvicina. Lo studiolo ha due porte: una è nascosta da una tenda che non è chiusa per bene.
Il bambino si avvicina e sente la voce del padre. Allora si siede contro il muro e si mette ad ascoltare. Dall’altro lato c’è una ragazzina che si è fatta dei tagli (autolesioni). Il bambino guarda su google di cosa si tratta e scopre un mondo, meravigliosamente inquietante e tutte le sere tornerà ad ascoltare. Il martedì si tratta di fobia scolastica, il mercoledì di un bambino che a nove anni si fa ancora la pipì a letto, il giovedì si tratta di una donna scappata con un’altra donna, e che ha lasciato il marito e i tre figli. Per lui è come seguire una serie televisiva. Ritorna ogni sera per vedere come va a finire, per sapere il seguito di tutte quelle storie. Il lettore si trova nella stessa posizione del bambino: origlia alla porta con lui. Siete dei voyeur. Questo è un primo “episodio” perché alla fine del libro lo psicologo non ha finito di curarli. Ci sono alcune terapie che continueranno. Ho già consegnato la seconda serie e sono alla terza stagione.

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DOMANDE DAL PUBBLICO:
Perché in “Oh boy” all’inizio non si capisce bene qual è il protagonista?
Murail: perché non c’è. Per me non esistono personaggi secondari. 
A te piacerebbe essere un personaggio secondario? Io penso che nessuno vorrebbe esserlo. 
Tutti i miei personaggi, quando entrano in scena, vogliono tutta la luce possibile. Non ci sono eroi e non ci sono personaggi secondari.

Volevo chiederle come è nato l’amore per Dickens per cui ha scritto Picnic al cimitero e altre stranezze.
Murail: questo amore è nato quando si ha voglia di innamorarsi. Siccome ho cominciato tardi, mi è capitato a 16 anni. Era un libro che si trovava nella biblioteca di mio padre. All’inizio non ho neanche capito il significato del titolo del libro “Les Papiers posthumes du Pickwick Club” (Il circolo Pickwick). Siccome all’epoca non esisteva facebook avevo tempo a disposizione per capire questo libro.
Ho iniziato a leggere e all’inizio non ho capito nulla: il primo capitolo era ambientato in un club di sportivi e assomigliava a un capitolo di una sessione parlamentare dell’Inghilterra del 19simo secolo. Avrebbe dovuto essere comico ma io la comicità non l’ho vista.
Infatti la storia inizia dal secondo capitolo, dove ho incontrato Samuel e ho iniziato a ridere.
E ho finalmente capito una cosa che i miei professori mi avevano nascosto: si può ridere con i libri. E che alcuni hanno il lieto fine. Così in seguito ne ho cercati altri. Nella biblioteca di papà ce n’era un altro “Il nostro comune amico”/L’amico comune un mattone e mi sono tuffata dentro come nel Tamigi. E così ho conosciuto il mio primo amore: Eugene Wrayburn e ho scritto le sue iniziali sul mio polso e ho dormito con il libro. L’anno dopo ero davvero innamorata, ma nella vita reale. 

Nel frattempo avevo capito quello che cercavo nei libri: le emozioni. Una ragazzina un giorno mi ha raccontato, quando ho finito il primo libro di Roal Dahl ho capito che avrei amato tutti i libri. Semplicemente aveva capito quello che stava cercando nei libri.Dickens mi ha insegnato che tipo di lettrice ero. E dopo ho voluto io rendere questo omaggio ai miei lettori. Con una “fava e due piccioni” ha fatto di me sia una lettrice sia una scrittrice. 

Penso che tutti quelli che scrivono abbiano fatto questo tipo di incontro. Succede la stessa cosa anche aquelli che suonano o dipingono abbiano fatto questo tipo di esperienza: penso che Raffaello un giorno si sia imbattuto in un quadro che lo ha folgorato abbia deciso di diventare pittore. Non è di fronte a un tramonto che uno decide di diventare pittore – a questo punto uno potrebbe dirsi “Anch’io voglio diventare Dio” ma non vorrei diventare un pittore – è solo davanti a un quadro che rappresenta il tramonto che uno scopre di voler diventare pittore, che nasce questa vocazione. 
Così torniamo alla vocazione, alla cultura e a Dickens. E così lui mi fece pensare: anch’io vorrei diventare scrittrice (applauso).

Volevo ringraziarla perché questo ruolo che Dickens ha avuto per lei, lei lo ha avuto con me con Cécile perché quando l’ho letto alla fine delle elementari ho pensato la stessa cosa, che mi aveva aperto un mondo. Il personaggio di Cécile mi aveva talmente ispirato da pensare anch’io vorrei scrivere personaggi simili. La ringrazio e volevo sapere, per ragazzi che vorrebbero scrivere, in un mondo in cui questo mestiere è considerato non redditizio, quale consiglio può dare?
Murail: quando mi chiedono un consiglio per diventare scrittore di solito ho una sola risposta. Scrivi. Ti do il permesso. Di fatto diventa scrittore chi si autorizza a farlo/diventarlo. Sono d’accordo ad aiutarti, ma la prima persona che ti aiuterà sei tu. 

Non devi aspettare che venga dall’esterno, ma porti con te un mondo, un bagaglio e se diventi scrittrice vuol dire che questo patrimonio lo vuoi condividere con gli altri

Allora ti direi anche la storia di un uomo che un giorno mi ha detto “si scrivo ma dopo due pagine non è così bello come ce lo avevo in mente. Allora smetto.” La differenza tra lui è me è che anch’io mi abbatto ma persevero. Un giorno mi sembra di aver scritto qualcosa di formidabile, il giorno successivo lo rileggo e penso “solo questo?”. Quello che diceva uno scrittore: scrivete quando siete ebbri/ubriachi e rileggetevi da sobri. Vivrai queste emozioni.
Bisogna avere forza di carattere. Poi penso che bisogna lavorare/perseverare e qualcuno ha detto che senza il lavoro/la fatica il talento è solo una mania. Leggere molto, scrivere magari tutti i giorni. Amare lavorare.
Penso che il mestiere di scrittore/romanzieri si impari. Molti mi parlano dell’ispirazione come se ci fosse la colomba dello Spirito Santo a ispirarti. Non ci credo molto. Credo di più nel fatto di cancellare e ricominciare.
Penso che per chi sente questo tipo di vocazione di iniziare con corsi di scrittura creativa, un’idea di atelier di scrittura e masterclass, perché penso che potrebbe evitare inutili perdite di tempo. La mia editrice francese le ha detto l’altro giorno che leggeva un sacco di manoscritti di giovani scrittori e mi diceva che scrivono bene, ci sono un sacco di personaggi interessanti ma non c’è una trama, una storia. È un problema francese e meno anglosassone, dove riescono più facilmente a scrivere delle storie. C’è bisogno di mettere insieme lo stile e la storia. Penso che questo sistema potrebbe accelerare la presa di coscienza di un giovane scrittore attraverso con atelier di scrittura e sarebbe bellissimo se fossero gli stessi editori a tenerli. 

L’ho proposto al mio editore ma non mi ha ancora risposto. Ha dei grandi locali a Parigi e sarebbe bello che persone come te inviassero una lettera motivazionale, alcune pagine di una storia o di un progetto di scrittura e che l’editore scegliesse 10/15 giovani scrittori e li facesse lavorare insieme e seguire da qualche romanziere esperto. Gli scrittori potrebbero aiutarli, trasmettere il loro sapere, e così l’editore si troverebbe già dei giovani talenti fatti e finiti. 
Perché no! (applauso)

 

(traduzione a cura di Anna Pisapia, A casa di Anna): grazie!

 

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