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L’incipit della settimana: Sarah Crossan, Apple e Rain

L’incipit della settimana: Sarah Crossan, Apple e Rain

Non so se ciò che ricordo è quanto è accaduto, o solo quanto io immagino sia accaduto ora che sono abbastanza grande per raccontare storie. Ho letto di quella cosa chiamata amnesia dell’infanzia. Significa che non riusciamo a ricordare niente di quando eravamo davvero piccoli perché prima dei tre anni non abbiamo ancora esercitato abbastanza la capacità di ricordare per riuscire a farlo bene. La teoria è questa, ma io non ne sono convinta. Ho un ricordo di quell’epoca. Non cambia mai, e se volessi inventarmi dei ricordi, non dovrebbero essere bei ricordi? E tutte le mie storie dell’infanzia non dovrebbero avere il lieto fine?

Mi sono svegliata piangendo. Sentivo voci arrabbiate al piano di sotto, e tuoni fuori di casa. Mi sono alzata dal letto e, inciampando, sono uscita sul ballatoio. Un cancelletto bianco era agganciato al montante della balaustra per evitare che ruzzolassi giù per le scale. Per quanto ci provassi, non riuscivo ad aprirlo. Ero scalza. Avevo i piedi freddi. Mi ero portata una coperta bianca che strascicava per terra.
Sulla porta d’ingresso, c’erano due persone sotto un ramoscello di vischio con le facce in ombra. Piagnucolavo. Nana ha alzato lo sguardo. “Torna a letto, cucciola,” ha detto. “Subito.”
“Non riesco a dormire,” ho risposto.
Nana ha annuito. “Lo so. Neanch’io riuscivo mai a dormire la vigilia di Natale.”
Ho fatto cenno di no con la testa. Natale non c’entrava niente. Era solo che non volevo tornare a letto. Il tuono rombava come se la finestra di camera mia potesse esplodere da un momento all’altro. E perché tutti gridavano?
Ho ripreso a piangere. Volevo che la persona con il cappotto verde accanto a Nana si voltasse perché, anche se dai capelli lunghi e la vita sottile intuivo che era una donna, non vedevo la sua faccia.
Ma lei non ha alzato lo sguardo. Fissava lo zerbino e teneva stretta la maniglia di una valigia.
“Ti chiamo tra qualche giorno,” ha sussurrato una voce da dentro il cappotto verde, e ho capito che era la mia mamma.
“Mamma,” ho detto.
Con la mano libera ha aperto la porta. Quando Nana ha cercato di impedirle di uscire nella notte, lei ha urlato e ha spinto mia nonna contro lo specchio appeso al muro. “Smettila di cercare di rovinarmi la vita!” ha gridato mia madre. Il vento ha spalancato la porta. La pioggia sferzante ha bagnato l’ingresso. L’aria aveva un odore salmastro.
Alla fine, Mamma si è voltata e mi ha vista, ma non ha sorriso, non mi ha salutata con la mano né mi ha mandato un bacio. Mi ha fissata, come se io fossi qualcosa di strano e triste che non riusciva a decifrare.
Poi ha tirato su con il naso, si è voltata e se n’è andata sbattendosi la porta alle spalle.
Era tornato il silenzio.
Niente grida.
E nemmeno tuoni.
“Mammina,” ho sussurrato.
“Mammina è andata via, cucciola,” ha detto Nana.

 

 

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