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I classici di qccc: Franz Kafka, La tana

I classici di qccc: Franz Kafka, La tana

“…e invece tutto è rimasto immutato.”
Queste sono le sentenziose parole con le quali si chiude uno degli ultimi e più angosciosi racconti di Kafka, La Tana. Con una narrazione in prima persona di un non ben definito essere fra uomo e topo, che sembra costantemente ricercare l’approvazione o almeno la comprensione di chi lo segue (legge), il racconto ha almeno tre baricentri su cui si innalza in diversi piani fra loro intrecciati.
La ricerca della protezione, della perfezione e la sua minuziosa architettura in costante divenire, laddove ogni essere esterno è nemico e pronto ad aggredire in qualsiasi momento, a minare a quanto edificato con strategica cura.
Se questa è la premessa, non resta che progettare e costruire un’inviolabile fortezza, nonché eleggerla a propria dimora perenne per ambire ad una dignitosa sopravvivenza. E tuttavia la paura si rivela sempre fluida, riesce a penetrare nelle pareti dell’anima così come non sembra accadere nei cunicoli scavati per il rifugio. Ed allora, la tana non è mai sicura come tanto la si desidererebbe e la pace, momentanea, sempre soltanto momentanea e caduca, sembra animarsi solo quando si è all’opera e si sta perfezionando la dimora. Non appena ci si abbandona al riposo, rumori percepiti, ansie e timori dell’imminente violazione riescono a sopraffare senza tregua ed alimentano costantemente la ricerca della costruzione della fortezza perfetta e, di rimando, la necessità di controllo totale. Ma ciò è un’assoluta illusione, così come il nemico che, paradossalmente, diventa l’unica ragione di vita. Ed allora, all’ennesima percezione della violazione della tana, la conclusione che non è tale: finisce solo ciò che ha un inizio.
È forse questa una testimonianza quanto più allegorica della condizione peculiare dell’umanità e del nostro vivere: la paura dell’altro ci conduce ad elaborare sofisticate dietrologie atte al controllo, nella convinzione che il nemico sia esogeno, mai sospettando che, invece, abbia solida dimora dentro di noi. Se con audacia si prendesse confidenza con la propria intimità, questa non si configurerebbe più come alterità bellicosa, ma come un io che necessita d’accettazione e accudimento, per non incorrere nel rischio di riconoscersi nelle cervellotiche, timorose e, per questo, quanto più umane creature kafkiane.

Chiara Principe

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