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Alessandro Baricco, Oceano mare

Alessandro Baricco, Oceano mare

Da secoli poeti, pittori e artisti di ogni sorta hanno tentato di intrappolare l’essenza infinita del mare in un’opera finita: un’impresa a dir poco paradossale rispetto a un elemento che piuttosto lascia privi di parole. Baricco con “Oceano mare” cambia prospettiva: non vuole fermarlo in un fotogramma ma vuole raccontare il mare, in ogni sua increspatura, in ogni suo costante mutamento, senza bloccarlo. Lo racconta nei tentativi del pittore Plasson di fissare sulla tela il mare, i quali si riducono ad una collezione infinita di tele bianche, o nella ricerca imperterrita dello studioso Bartleboom di capire dove finisce l’oceano mare, il suo limite proprio nel punto dove l’onda sale sulla spiaggia e poi si ferma. Lo racconta come luogo per curare il dolore di una ragazza, ma anche come luogo che trasforma gli uomini, uomini lasciati soli nell’infinità del mare con le loro paure che, divorati dall’egoismo più feroce che solo la fame produce, si dimenticano l’umanità.


“Oceano mare” non può essere raccontato: è una poesia e come ogni poesia dev’essere ascoltato, bisogna abbandonare per un attimo l’abitudine a porre l’attenzione sul racconto, su cosa succede ai personaggi, ma guardare ai dettagli perché sono quelli che compongono l’oceano mare nel costante flusso di parole che rende questo breve romanzo un movimento infinito simile a quello del nostro mare.
“La perfezione di quel moto oscillatorio formulava promesse che l’irripetibile unicità di ogni singola onda condannava a non esser mantenute. Non c’era verso di fermare quel continuo avvicendarsi di creazione e distruzione”.

Emma Mazzanti

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